Aprendo i social in questi giorni vi sarà sicuramente capitato di essere bombardati da foto di vostri conoscenti trasformate in disegni stile anime, e no, non hanno pagato studio Ghibli per farsi realizzare un’opera personalizzata, è una creatività artificiale prodotta dall’AI. Ma a questo punto sorge la domanda, possiamo davvero definirla “creatività”? In questo articolo vorrei affrontare il tema del ricorso frenetico all’intelligenza artificiale per riprodurre arte e le conseguenze sugli artisti e sui fruitori.

Parliamoci chiaro: quando si immette qualcosa nell’etere di internet, purtroppo dobbiamo rassegnarci a perderne ogni proprietà intellettuale, perché la copia non è solo inevitabile — è parte integrante dei meccanismi evolutivi dell’essere umano. Copiare, rielaborare, adattare: è così che apprendiamo, innoviamo e diamo forma al nuovo. E oggi, questo stesso impulso viene amplificato dall’intelligenza artificiale, che impara proprio come noi: osserva, assorbe, ricombina. Solo che lo fa in modo più veloce, più massivo, e (per ora) senza porsi domande etiche. Non è quindi sul copyright che mi soffermerò. Occorre innanzitutto fare un piccolo passo indietro e interrogarci su quale sia la prerogativa dell’arte.

Cos’è l’arte e l’AI può sostituire gli artisti?

Il significato dell’arte racchiude intrinsecamente un collegamento all’espressione dell’animo umano e qui vorrei analizzare tre concetti:

  1. L’arte è la storia che si nasconde dietro l’artista stesso, la sublimazione della sua creatività che culmina in un’opera, pertanto, ha prima di tutto valore in quanto opera umana, ha un valore umano perché sintesi del vissuto, della creatività, delle emozioni, delle abilità dell’artista e qui passiamo al prossimo punto.
  1. Il secondo è un concetto che può essere applicato anche alle copie d’autore e cioè che noi esseri umani attribuiamo valore all’opera d’arte in quanto sintesi di abilità fuori dal comune, allo “sforzo” di abilità che può essere anche puramente tecnico, come nel caso delle copie o puramente creativo come nel caso delle opere astratte, o un mix di entrambi.
  1. Perché si sceglie di essere ritratti da un’artista? Perché attraverso il suo sforzo che sia creativo, di abilità, emozionale o quant’altro viene partorita un’immagine di noi (nel caso dei ritratti) o di un qualsiasi altro oggetto, assolutamente esclusiva.

L’arte non possono averla tutti perché richiede determinate condizioni proprie all’artista. Pensiamo alla banana di Cattelan, lui ha avuto l’intuizione, ma può un qualsiasi altro essere umano attaccare con scotch una banana ad una parete? La risposta è: Sì!

Può un qualsiasi altro essere umano considerarsi un artista o di possedere un’opera d’arte dopo averlo fatto? La risposta è: No! Perché lo sforzo di creatività è stato compiuto da Cattelan.

Ma ritorniamo all’AI: non c’è nulla di esclusivo, nulla di creativo, nulla di tecnico (inteso come abilità) nel creare con un click una copia digitale di un’opera, in questo caso più che la passione per l’arte stessa, le motivazioni che spingono così tanta gente a seguire questi trend afferiscono probabilmente a qualcos’altro, lo affrontiamo nel prossimo paragrafo.

Perché seguiamo tutti i trend dell’AI? Una risposta che va oltre la moda

Quando un trend esplode — come è successo con i ritratti in stile Studio Ghibli generati dall’intelligenza artificiale, o con i finti shooting fotografici che hanno invaso i social — la reazione collettiva è quasi automatica: tutti vogliono provarlo. Ma cosa ci spinge davvero a imitare in massa questi fenomeni digitali? Non è solo curiosità o noia. A livello psicologico, entra in gioco un bisogno umano profondo: quello di appartenenza e riconoscimento. Quando vediamo che “tutti lo stanno facendo”, scatta un meccanismo inconscio di validazione sociale: partecipare al trend significa esserci, essere visti, far parte di un linguaggio condiviso. Oltre a questo, la “paura di perdersi qualcosa”, di rimanere fuori, la cosiddetta FOMO, di cui sentiamo spesso parlare in ambito marketing, è la ciliegina sulla torta. 

L’intelligenza artificiale, in questo senso, non è altro che uno specchio tecnologico del nostro desiderio di identità e connessione. E se domani l’AI iniziasse a generare poesie in stile Dante o selfie in epoca Edo, probabilmente lo faremmo di nuovo: non per il risultato, ma per non restare fuori dalla narrazione collettiva.

Conclusioni 

Il mondo dell’arte, secondo me, ha senso di esistere in quanto umano, perché è proprio il limite, la fatica, l’imperfezione dell’essere umano a renderla viva, a renderla tale. L’intelligenza artificiale può imitare, replicare, generare infinite varianti — ma lo fa senza intenzione, senza consapevolezza, senza emozione e senza sforzo. E proprio lì sta la differenza: tra creare e calcolare, tra comunicare e produrre.

Questa distinzione, però, non riguarda solo l’arte. Anche nel mondo del marketing digitale, la linea di confine tra contenuto autentico e contenuto “ottimizzato” si sta facendo sottile. Le AI scrivono copy, generano immagini, suggeriscono strategie. Ma se vogliamo davvero costruire una comunicazione significativa, non possiamo dimenticarci dell’elemento umano, del pensiero critico, del contesto culturale. Quello che fa la differenza, anche oggi, è ancora la visione.

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